A Casey Calvert come vista in «Wet Food 6»

Ecco, incede col tacco da quindici

Incalzante, reziaria di calza

Di passo per nulla insicuro

(nel suo poco, il poeta è già duro)

 

Lei si pone nel centro del Circo

Già di gladio sguainato affollato

Lei regina in ginocchio sul trono

Loro volgo mai in faccia inquadrato

 

Lei nel centro e loro cornice

Benedice cogli occhi quell’orda

Ne organizza le fila a triclinio

E li serra svelandosi ingorda

 

Lei leonessa che fiera dispone

Dei cristiani il suo lauto banchetto

Loro carne frollata in guazzetto

Non assaggia, ma presto divora

 

Non è questa una cena di gala

Non c’è guanti o cravatte di raso

Convenevoli un tanto svenevoli

Cerimonie a seconda del caso

 

Qui c’è pugna e saliva e sudore

Qui c’è diva che, polipo, impugna

Verghe, varre di verri a rinfusa

Che s’annusa scegliendoli a naso

 

Ci son falli mancanti di errore

Fotogenici all’operatore

Chi brandeggia un albino pitone

Chi parcheggia il suo autofurgone

 

Cafro curvo a cagione del peso

lungo tal che mai teso riesce

ma anche molle il primato detiene

(Il poeta ha l’invidia del pene)

 

I poeti, che brutte creature

Questo carme, alla fine,

lo spiega

Fanno versi che storpi riescono

Anziché più prosaica

una sega

 

autentiche cazzate

A marzo, strani prodigi apparvero in cielo e in terra. Per chi aveva dimestichezza coi papiri dell’apostolo Giovanni non era difficile individuare l’inizio della fine.

Uno dei ventiquattro anziani fu facilmente indicato nel capogruppo grillino al Senato, che dimostrava sessant’anni portati male pur avendone venti di meno.

In un negozio del centro, sette suonerie polifoniche squillarono contemporaneamente da uno stesso Nokia, e facevano tutte così.

Tracce di carne di cavallo furono trovate nelle confezioni di «ravioli alla carne di cavallo». Ed erano pure calcolate bene le calorie sull’etichetta.

Il Figlio dell’uomo fece più fatica a uscire rispetto al figlio della donna (per ragioni la cui evidenza suggerisce qui di farne omissione).

Con tempismo, La Repubblica uscì in edicola colla ristampa dell’album dei Pinfloi, quello coi triangoli. Sentire in cuffia «Non c’è nessun lato oscuro della luna, davvero. In realtà è tutta scura» mi fece sentire in armonia col mondo.

Un corteo non autorizzato di parlamentari fermò i tacchi sulle scale del Tribunale di Milano. Erano lì per fare l’Harlem Shake, ma Brunetta si era dimenticato di portare lo stereo. Per salvare il flash mob, si pensò di cantare tutti l’Inno di Mameli, fermi immobili, con la sola Santa Anché  ad accennare qualche movimento di pelvi; poi giunti al «Siam pronti alla morte» partire col casino e tutti a fare la Casa delle Libertà, more solito, con coriandoli e lingue di Menelik.  Qualcuno  ingenuamente pensò fossero lì convenuti per una irrituale manifestazione di solidarietà: il vecchio satiro loro mentore, a cui erano finite le pile della protesi peniena, si era inutilmente sbriciolato un testicolo a furia di pompatine e ora giaceva presso Zangrillo, a fine corsa, ghermito dai fantasmi di tutta una vita, braccato per vecchie malefatte. Ma non era così. Per questo, i celerini attendati poco lontano, guardarono mogi i loro sfollagente e tornarono a messaggiare la fidanza.

Nella Cappella Sistina, il consiglio di amministrazione della Vaticano S.p.a. nominava il nuovo A.D.: come primo atto, avrebbe cambiato guardaroba, da nero e porpora a bianco latte Poi il resort di Castelgandolfo, qualche viaggetto a Tropici, le domeniche a spararsi le pose colla papamobile. Qualche chierichetto. Per tutto il resto c’era la mastercard emessa dallo Ior.

La fumata nera per i primi sedici scrutini la espirò tutta il cardinale arcivescovo di Kingston.

Fútbol. Quarant’anni non si hanno invano

…di quando a tre anni inseguivo un super tele giallo e – senza nulla sapere allora degli atti performativi – andavo dicendo «palla mia, palla mia», pensando fosse sufficiente a mantenerne il possesso contro ipercinetici cugini; di quando comprai il completino della Juventus alla Standa e diventai juventino: maniche lunghe sempre più lunghe e pantaloncini neri (che fosse la divisa dell’Ascoli?); le partite giocate fino al tramonto, nei trenta metri quadri del cortile di via Gorizia, il fuori che non esiste, la porta che è il cancello, il palo che è un mattone e la porzione di nulla cosmico che vi insisite; la conta per decidere le squadre, l’umiliazione dell’essere ultimo e dispari: «Gabriele o palla e campo» e scelgono «palla e campo»; quella sensazione intima di essere, in campo, un arbitro: correre, sudare, senza mai toccare palla; il «portiere scartatore», il «chi si trova para» e altre fantasiose regole di giuoco mai codificate dalla FIFA; le partite di “Argentina ’78” viste sul televisore altrove già descrittomonade con zampe da zanzara, come gli elefanti dipinti da Dalì»), unico tra i miei compagni di classe a pensare che la divisa della Nazionale fosse grigia; la squadra di calcio della V elementare, che io volevo Stella Rossa e che finì per essere chiamata Stella Azzurra, ché di giovani comunisti, allora, c’ero solo io; le partite al campetto in breccia della Salvarani; il fango del campo di Macchia d’Isernia; la merda di vacca di quello di Pettoranello; gli undici della squadra di calcio che aveva D’Agostino come patron e magliette azzurrine della Ginori e altre marche di cessi per improvvisata divisa; l’essere preso per il culo per il Napoli quando Napoli non è Maradona-Giordano-Careca, ma Juliano, Savoldi e tale Livio Pin (per quale strano meccanismo si ricordano nomi e cognomi di giocatori anonimi, figure da figurine perse nei cassetti? Perché mi è così presente nella memoria un Agatino Cuttone nel Catanzaro 1982-’83?); Italia-Germania, finale dei mondiali dell’ ’82, nell’enclave tedesca del camping Holiday di Giulianova Lido; il Campobasso in serie B, di cui non mi è mai fregato un cazzo; il giocare all’attacco, ignorato da tutti, come Paolo Rossi davanti alla porta avversaria, in tempi in cui “fuorigioco” era lemma sconosciuto al pari di “lemure” o “fagocitosi”; il primo gol segnato, in assoluto, a Pescopennataro; le partite del sabato pomeriggio al Campo del Sole, alle Magistrali o all’Andrea d’Isernia; il tridente dei poveri: Sapientone-Provolone-Prosciuttone e il gol in mezza rovesciata da centrocampo che mi uscì a culo; Maradò-Maradò-Maradò!, i due scudetti del Napoli e il terzo venduto al Milan; i campionati europei di calcio del 1988, Olanda-Unione Sovietica, in piedi per l’inno nazionale delle Repubbliche socialiste; le partite a Subbuteo a casa di Matteo, all’inizio delle vacanze di Natale; Mumundo, Gugundo, Mbosso; Italia ’90, visita militare dei tre giorni a Foggia: dopo il secondo gol all’Uruguay sul balcone dell’Hotel Cicolella a gridare «Tutti riformati! Tutti riformati!»; l’eleganza di Angelo Sassi; Matteo vestito da portiere; Luca Inno che mi frana sulla caviglia; le partite adulte sui campi dove si paga, il fiatone, le bolle sotto ai piedi, ultimi fuochi di una carriera che non vedrà mai la partitella aziendale Scapoli-Ammogliati.

E Napoli-Juventus vista con Francesca in braccio, che mi sorride quando le dico: «Papà, abbiamo vinto la Coppa Italia.»

***
[l’occasione, sia detto tra parentesi, è stata questa:

Fútbologia 2012 è un festival di tre giorni a Bologna per ripensare il calcio. A Ottobre.

Di giorno conferenze e incontri, di sera reading e concerti.
In mezzo proiezioni di film e documentari, torneo di calcio a cinque, bar sport, workshop di costruzione della palla per bambini. E tanto altro ancora.
John Foot, Simon Kuper, David Winner, David Goldblatt, Gianni Minà, Valerio MastandreaPaolo Sollier, Wu Ming, Guido Chiesa, Diego Bianchi, Mimì Clementi saranno con noi, anche per organizzare l’evento. Tanti altri amici italiani e stranieri continuano ad aggiungersi.
Tutti gli eventi congressuali saranno ad accesso gratuito. Grazie anche alle decine di volontari che hanno generosamente offerto il loro aiuto per l’organizzazione.

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